Sta diventando purtroppo ormai abituale registrare notizie relative a suicidi nel nostro territorio, fenomeno che inquieta, ma che deve farci riflettere su eventi umani e sociali di particolare gravità di cui, nella maggior parte dei casi, non riusciamo a dare risposta.
Ma cosa è il suicidio e soprattutto cosa lo induce, ma ancora, quale è lo scopo reale di tale atto?
La parola suicidio viene dal latino “sui caedere”, cioè “uccidere sé stessi”, un atto con cui la persona si procura deliberatamente la morte in un atto autolesionistico estremo. L’atto è frutto spesso di un disagio psichico, di ragioni personali come una difficoltà economica, un problema di salute, una delusione affettiva o lavorativa o, ancora, fenomeno sempre più frequente ai nostri giorni, di condizionamenti sociali come la disoccupazione, la povertà, la condizione di homeless, la solitudine sociale, la delusione comune di non essere pari agli standard collettivi proposti dal web, da sensi di colpa, o, più banalmente, da incapacità di reggere le problematiche quotidiane e/o familiari.
Psicologia, Sociologia, e Filosofia si sono a lungo interrogati sul fenomeno del suicidio, se esso è frutto di sensi di colpa che determinano odio verso sé stessi, di una condizione sociale inappagante o da una forma di trasgressione verso sé stessi e verso Dio che si manifesta come atto di libertà umana.
“La vita e il tempo definiscono l’esistenza di un individuo e il suicidio è un evento intenzionale che si decide quando si è ancora in vita” afferma Nietzsche, ma questo ci appare ancora inaccettabile se consideriamo che la nostra esistenza è condizionata dall’istinto della sopravvivenza, impulso naturale che ci porta a difendere la nostra vita anche nelle situazioni più estreme.
Secondo il pensatore Schopenhauer il suicidio è irragionevole non perché contrario alla legge morale, ai doveri sociali o alla volontà divina, ma perché è un modo sbagliato di rispondere alle sofferenze della vita.
La verità è che, al di là di teorie e studi sul fenomeno, nel nostro Sannio, negli ultimi mesi, sono stati registrati numerosi atti di suicidio, compiuti, oltre tutto, da persone di varie età e diverse condizioni sociali, ovviamente tutte accumunate da un male di vivere che ha roso la mente e la ragione, una condizione estrema spesso programmata da tempo, altre volte figlia di un impulso crudele del momento che ha accecato ogni forma di razionalità e che, egoisticamente, ha ignorato affetti e sofferenze altrui.
Abbiamo appreso di storie come quella di un padre che si uccide dopo aver a sua volta ucciso il figlio, uomini di media età che si sono tolti la vita nei luoghi più strani e con i mezzi più disparati, un giovane che decide di farla finita tra le mura della sua casa come Mattia (leggi QUI), esseri umani a cui è forse mancata la forza o il coraggio di chiedere aiuto, di mostrare agli altri le proprie debolezze, di confessare la sconfitta della propria vita.
La morte come soluzione alla vita, la fine come atto di liberazione dalla sofferenza nel pensiero di un domani oscuro e da relazioni umane difficili, da una condizione umana e sociale ben lontana da quelle aspettative proposte dai social e dal web, mondo falso e mendace che rappresenta un presente lusinghiero e lusingante che inganna, ma pretende di essere realtà ed al quale quasi sempre non possiamo stare al passo, mondo che spesso incoraggia a pratiche terribili come il suicidio.
Eppure non si può non vedere la condizione di grande solitudine in cui va maturando il fenomeno del suicidio, sofferenza privata da cui tutti sono esclusi perché ritenuti incapaci di comprendere, atto privatissimo che non prevede alternative, gesto spesso programmato anche nelle modalità di realizzazione, un’arma o un cappio o qualunque altro strumento di soppressione di sofferenza, progetto estremo vissuto da soli perché nessuno può modificare il mondo di paure e dolore che opprime e annienta.
Il suicidio è un fenomeno che sconvolge quando viene messo in atto da qualcuno a noi caro o che si conosce soltanto di vista, atto definitivo che disturba e che suscita le più disparate reazioni: tristezza, incredulità, disapprovazione, ma anche rabbia verso chi ha sconvolto il normale iter della vita ignorando, egoisticamente, conseguenze affettive o sociali.
La religione cattolica, che pure riconosce il valore del martirio per la fede, condanna il suicidio in quanto la morte per via di un atto del genere, liberamente scelto, è ancora considerata un peccato grave perché la vita è proprietà di Dio, diversamente da altre religioni come il Paganesimo, l’Induismo, il Buddismo, nelle quali il suicido è tollerato o totalmente accettato. Chi soffre però si chiede, a qualunque religione appartenga, dove sia quel Dio lontano che tollera tanta sofferenza.
In realtà non esiste termine o definizione del suicidio che descriva, in termini lessicali o etici, un atto che resta comunque privato e sfugge ad ogni valutazione sia religiosa che morale, l’unica cosa che suscita un atto così estremo è il dolore per la perdita di un essere umano, un’entità che, pur essendo un animale, è pensante, dotato di coscienza e di ragione, capace di concepire e volere.
“L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante” affermava Blaise Pascal, e ancora “ Cogito ergo sum” affermava Cartesio, teorie sulla coscienza pensante umana che fanno riflettere sull’uso che di tale pensabilità ne fa l’uomo, una intelligenza ed un intelletto che spesso si incamminano verso strade ignote e senza ritorno, un cammino che fa riflettere sulle responsabilità che ognuno di noi può avere nel non accorgerci del nostro mancato sostegno ad esseri umani in difficoltà.
Il territorio in cui viviamo noi oggi, il Sannio, appare piccolo geograficamente, ma è enormemente grande per la ricchezza umana che contiene, terra di tradizioni, ma anche di giovani speranze, di quiete, ma anche di incertezze ed incognite lavorative e sociali, di progetti anche culturali, ma contemporaneamente, come nel resto del paese, di interrogativi che arrivano dal web e dal mondo digitale che, tutti insieme, generano quel male di vivere che, da aguzzino, a volte ci fa scegliere di porre fine alla nostra vita lasciando interrogativi destinati a rimanere senza risposta.
Sta diventando purtroppo ormai abituale registrare notizie relative a suicidi nel nostro territorio, fenomeno che inquieta, ma che deve farci riflettere su eventi umani e sociali di particolare gravità di cui, nella maggior parte dei casi, non riusciamo a dare risposta.
Ma cosa è il suicidio e soprattutto cosa lo induce, ma ancora, quale è lo scopo reale di tale atto?
La parola suicidio viene dal latino “sui caedere”, cioè “uccidere sé stessi”, un atto con cui la persona si procura deliberatamente la morte in un atto autolesionistico estremo. L’atto è frutto spesso di un disagio psichico, di ragioni personali come una difficoltà economica, un problema di salute, come nei casi di eutanasia, una delusione affettiva o lavorativa o, ancora, fenomeno sempre più frequente ai nostri giorni, di condizionamenti sociali come la disoccupazione, la povertà, la condizione di homeless, la solitudine sociale, la delusione comune di non essere pari agli standard collettivi proposti dal web, da sensi di colpa, o, più banalmente, da incapacità di reggere le problematiche quotidiane e/o familiari.
Psicologia, Sociologia, e Filosofia si sono a lungo interrogati sul fenomeno del suicidio, se esso è frutto di sensi di colpa che determinano odio verso sé stessi, di una condizione sociale inappagante o da una forma di trasgressione verso sé stessi e verso Dio che si manifesta come atto di libertà umana.
“la vita e il tempo definiscono l’esistenza di un individuo e il suicidio è un evento intenzionale che si decide quando si è ancora in vita” afferma Nietzsche, ma questo ci appare ancora inaccettabile se consideriamo che la nostra esistenza è condizionata dall’istinto della sopravvivenza, impulso naturale che ci porta a difendere la nostra vita anche nelle situazioni più estreme.
Secondo il pensatore Schopenhauer il suicidio è irragionevole non perché contrario alla legge morale, ai doveri sociali o alla volontà divina, ma perché è un modo sbagliato di rispondere alle sofferenze della vita.
La verità è che, al di là di teorie e studi sul fenomeno, nel nostro Sannio, negli ultimi mesi, sono stati registrati numerosi atti di suicidio, compiuti, oltre tutto, da persone di varie età e diverse condizioni sociali, ovviamente tutte accumunate da un male di vivere che ha roso la mente e la ragione, una condizione estrema spesso programmata da tempo, altre volte figlia di un impulso crudele del momento che ha accecato ogni forma di razionalità e che, egoisticamente, ha ignorato affetti e sofferenze altrui.
Abbiamo appreso di storie come quella di un padre che si uccide dopo aver a sua volta ucciso il figlio, uomini di media età che si sono tolti la vita nei luoghi più strani e con i mezzi più disparati, un giovane che decide di farla finita tra le mura della sua casa, esseri umani a cui è forse mancata la forza o il coraggio di chiedere aiuto, di mostrare agli altri le proprie debolezze, di confessare la sconfitta della propria vita.
La morte come soluzione alla vita, la fine come atto di liberazione dalla sofferenza nel pensiero di un domani oscuro e da relazioni umane difficili, da una condizione umana e sociale ben lontana da quelle aspettative proposte dai social e dal web, mondo falso e mendace che rappresenta un presente lusinghiero e lusingante che inganna, ma pretende di essere realtà ed al quale quasi sempre non possiamo stare al passo, mondo che spesso incoraggia a pratiche terribili come il suicidio.
Eppure non si può non vedere la condizione di grande solitudine in cui va maturando il fenomeno del suicidio, sofferenza privata da cui tutti sono esclusi perché ritenuti incapaci di comprendere, atto privatissimo che non prevede alternative, gesto spesso programmato anche nelle modalità di realizzazione, un’arma o un cappio o qualunque altro strumento di soppressione di sofferenza, progetto estremo vissuto da soli perché nessuno può modificare il mondo di paure e dolore che opprime e annienta.
Il suicidio è un fenomeno che sconvolge quando viene messo in atto da qualcuno a noi caro o che si conosce soltanto di vista, atto definitivo che disturba e che suscita le più disparate reazioni: tristezza, incredulità, disapprovazione, ma anche rabbia verso chi ha sconvolto il normale iter della vita ignorando, egoisticamente, conseguenze affettive o sociali.
La religione cattolica, che pure riconosce il valore del martirio per la fede, condanna il suicidio in quanto la morte per via di un atto del genere, liberamente scelta, è ancora considerata un peccato grave perché la vita è proprietà di Dio, diversamente da altre religioni come il Paganesimo, l’Induismo, il Buddismo, nelle quali il suicido è tollerato o totalmente accettato. Chi soffre però si chiede, a qualunque religione appartenga, dove sia quel Dio lontano che tollera tanta sofferenza.
Non esiste inoltre termine o definizione del suicidio che descriva, in termini lessicali o etici, un atto che resta comunque privato e sfugge ad ogni valutazione sia religiosa che morale, l’unica cosa che suscita un atto così estremo è il dolore per la perdita di un essere umano, un’entità che, pur essendo un animale, è pensante, dotato di coscienza e di ragione, capace di concepire e volere.
“L’uomo non è che una canna, la più fragile di tutta la natura; ma è una canna pensante” affermava Blaise Pascal, e ancora “ Cogito ergo sum” – Penso dunque esisto – affermava Cartesio, teorie sulla coscienza pensante umana che fanno riflettere sull’uso che di tale pensabilità ne fa l’uomo, una intelligenza ed un intelletto che spesso si incamminano verso strade ignote e senza ritorno, un cammino che fa riflettere sulle responsabilità che ognuno di noi può avere nel non accorgerci di tanta sofferenza e del nostro mancato sostegno ad esseri umani in difficoltà.
Il territorio in cui viviamo noi oggi, il Sannio, appare piccolo geograficamente, ma è enormemente grande per la ricchezza umana che contiene, terra di tradizioni, ma anche di giovani speranze, di quiete, ma anche di incertezze ed incognite lavorative e sociali, di progetti anche culturali, ma contemporaneamente, come nel resto del paese, di interrogativi che arrivano dal web e dal mondo digitale che, tutti insieme, generano quel male di vivere che, da aguzzino che è, a volte ci fa scegliere di porre fine alla nostra vita lasciando interrogativi destinati a rimanere senza risposta.
Al Teatro Comunale, l’Orchestra Filarmonica di Benevento e la fine recitazione di Luca Word hanno affascinato i presenti
Nella serata di venerdì 20, il teatro Comunale di Benevento ha visto in scena l’Orchestra Filarmonica cittadina e l’intensa recitazione di Luca Word, un connubio di musica e parole che hanno incantato il numeroso pubblico presente.
L’Orchestra ha aperto la serata eseguendo, con maestria, numerosi brani musicali con i quali hanno riempito l’aria di dolcezza e aggressività, di un lamento che assumeva, quasi all’improvviso, una voce tonante attraverso il sapiente accordo di violini – persuasivi e decisi-, di trombe e clarinetto che si scambiavano note quasi parlassero e si confidassero segreti propositi, strumenti a corda che si impossessavano della scena con il loro suono profondo e suadente.
Vivacità e dolcezza, suoni morbidi e decisi si sono alternati avvincendo il pubblico presente che ha percepito la voce dell’Orchestra che, con le parole della musica, all’unisono, ha parlato di emozioni, sentimenti, pensieri, timori e gioie.
Diretti con passione dalla giovane Danila Grassi,i musicisti hanno saputo, in perfetta sintonia fatta di semplici sguardi e precisi accordi tra strumenti, dare vita a quella musica che Schopenhauer definì “metafisica dei suoni”, strumento che ci consente di attingere l’essenza più profonda delle cose, al di là dei limiti della ragione.
Accolto con un sentito applauso, ha fatto poi il suo ingresso sul palco Luca Word, attore e doppiatore conosciuto soprattutto per la battuta “Al mio segnale scatenate l’inferno” di Massimo Decimo Maridio, generale delle legioni romane – interpretato da Russell Crowe, all’interno del film “IL Gladiatore”. Egli, accompagnato dalla melodia, ha letto una favola in musica, la storia di animali che, riunitisi in assemblea straordinaria a causa di grandi difficoltà nei rapporti con gli esseri umani, presieduti dal re leone, fanno il punto sui problemi e sulle possibili soluzioni.
Sono presenti all’assemblea tutti gli animali che vogliono proporre diverse soluzioni, dalle galline “stressate” che parlano attraverso gli stridii dei violini, all’emione, asino selvatico che pronuncia il suo discorso con le note di un pianoforte, tutti zittiti dal leone che richiama gli animali e ricorda loro che il peggior nemico del mondo animale, quello che prepara la loro estinzione di massa è l’uomo.
Ad ogni animale che si presenta sulla scena Luca Word accompagna una vocina simile a quella dell’animale, quasi a rappresentare con la voce e le parole, i sentimenti e lo stato d’animo di ciascuno di loro.
Interviene Romeo, pastore abruzzese, che afferma che non è l’uomo il nemico, perché in lui c’è del buono e del bello.
Al che la tartaruga chiede di che amore lui parli, i suoi gusci infatti vengono usati dagli uomini per fare tabacchiere. Alle sue parole l’Orchestra intona una sinfonia lamentosa e malinconica.
Il leone, appoggiando le parole della tartaruga, ricorda con tristezza che lui ed i suoi fratelli sono spesso i trofei degli uomini. Ecco che il sassofono rimarca le parole dell’animale facendo sentire il suo lamento attraverso il suono profondo dello strumento.
Il canguro non è così caustico verso gli uomini, nel chiedere se quell’assemblea non fosse una festa, egli ricorda che in Australia per ogni uomo ci sono due canguri, dunque essi sono la specie dominante. Il pianoforte rimarca le sue parole spandendo la sua voce quasi fosse nelle radure o nelle praterie in cui vivono i canguri.
La civetta ricorda a tutti che la deforestazione è opera umana, un pesce rosso propone che l’uomo sia rinchiuso in un acquario e l’Orchestra rimarca la proposta con un suono dolce e suadente. L’asino propone che l’uomo diventi asino, il cuculo che sia rinchiuso in una gabbia come gli uccelli ed ambedue si fanno sentire, oltre che con la voce di Ward, anche con l’accento del pianoforte e della tromba che, a piccoli sprazzi, riempie l’aria.
Il leone ricorda poi che trasformare l’uomo in uno di loro non servirebbe a niente, “gli uomini sono una causa persa” dice, i cuccioli umani invece sono diversi, non sono insensibili. L’Orchestra rimarca tale asserzione con il suo potente ed unisono suono. Se si raccontasse loro la nostra storia, dice il leone, le cose cambierebbero.
Il pastore Romeo torna allora a casa dove l’aspetta la sua amica bambina che dorme e sogna strani sassi – l’Orchestra accompagna tali sogni con la sua melodia ed il tintinnio dello xilofono – sassi che parlano e le dicono che non sono tali, ma fossili di animali.
La bimba si sveglia alla voce di un sasso che ridiventa cigno – con il suono languido e suadente di uno splendido violoncello -pronto ad esaudire i suoi desideri e, poiché ella non vuole che nessun animale si estingua, chiede di correre dai suoi amici che, insieme a lei, dovranno far sentire la loro voce nella difesa degli animali.
Alla lettura dell’ultimo passaggio della favola, dove si rimarca che nessun animale diventerà mai un ricordo per tutti i bambini, l’Orchestra, al completo, intona una melodia ridente e coinvolgente.
Luca Word e l’Ofb di Benevento riescono così, magistralmente, in una serata di teatro e musica, ad ammonire su un possibile domani di distruzione e a ricordare che preservare è il solo modo per consentire che la nostra vita ed il nostro mondo restino per sempre quel luogo meraviglioso che noi tutti amiamo.
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