Lo Stato colpisce duramente la Mafia, arrestato Matteo Messina Denaro

Lo Stato colpisce duramente la Mafia, arrestato Matteo Messina Denaro

CronacaItalia

Arrestato dai carabinieri del Ros, dopo 30 anni di latitanza, il pluriomicida e boss della  mafia Matteo Messina Denaro.

Il mafioso è stato arrestato mentre si trovava all’interno della clinica privata La Maddalena di Palermo per sottoporsi ad un ciclo di chemioterapia, dopo un intervento subito un anno fa. Era presente sotto falso nome e precisamente come Andrea Bonafede.

Alle domande dei carabinieri del Ros sulla propria identità ha risposto identificandosi subito come Matteo Messina Denaro ed ha seguito gli stessi nell’atto di arresto.

U siccu”, come era chiamato, aveva avuto un ruolo importante nella pianificazione degli attentati del ’92-’93, anni difficili dello Stato italiano, anni della morte di Falcone e Borsellino, l’assassinio dell’amico della mafia  Salvo Lima, il vicerè di Andreotti in Sicilia, anni dell’attentato con morti dei Georgofili, di Milano, delle bombe davanti alle chiese di San Giorgio in Velabro, di San Giovanni in Laterano, del governo Cossiga, della trasformazione del partito del Pci in Pds, della fine della Democrazia Cristiana, dell’arresto di Mario Chiesa e dell’inizio di Tangentopoli.

Anni difficili, all’interno dei quali la mafia ha tramato per coprire e favorire i propri interessi, ma anche il momento dell’arresto di Totò Riina e del salita all’apice del potere mafioso di Matteo Messina Denaro.

Tanti i delitti di cui si è reso responsabile, ma sicuramente quello più efferato è stato l’assassinio del giovanissimo Giuseppe Di Matteo, un dodicenne figlio di Santino Di Matteo, ex mafioso, che in quei giorni aveva deciso di collaborare con la giustizia. Il corpo del ragazzo non fu mai ritrovato perché era stato sciolto in un fusto di acido nitrico.

Il boss, arrestato nella mattinata di lunedì, era considerato il successore di Totò Riina, condannato per decine di omicidi compresi quelli di Falcone e Borsellino, ma fuggiasco dal 1993 quando, per l’ultima volta, fu visto a Forte dei Marmi.

 La cosa più assurda però è stata che per anni il criminale ha circolato liberamente per il paese e per il resto del mondo, senza mai trovare intoppi sui suoi spostamenti, tante le talpe che lo avvisavano della presenza delle forze dell’ordine, ma cosa ancora più grave, tante le connivenze che gli hanno consentito la lunga la latitanza: politici, medici, professionisti che, affiancando la mafia, gli hanno consentito di vivere la sua vita senza problemi.

Nando Dalla Chiesa, figlio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, trucidato dalla mafia il 3 settembre del 1982, ha dichiarato che “questo arresto dimostra che non esistono gli imprendibili e neppure gli invincibili” mostrandosi contento che ad arrestare il boss siano stati i Ros, nucleo investigativo dell’Arma dei Carabinieri con competenza sia sulla criminalità organizzata che sul terrorismo, voluto proprio da suo padre Carlo Alberto.

Importante rilevare che la gente di Palermo, pazienti del nosocomio e loro familiari, hanno accompagnato l’arresto applaudendo  convinta e felice del fatto che lo Stato sa sconfiggere la mafia gridando : “Bravi, bravi”. D’altra parte la morte di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nel ’92, aveva già dimostrato che la mafia aveva paura che lo Stato fosse più forte del previsto e che potesse sconfiggerla.

In questi trenta anni però il Denaro, oltre a scampare alla cattura, ha anche accumulato una grande ricchezza, il patrimonio attribuito a lui e finora sequestrato, ammonta a circa 7 miliardi di euro. Denaro che gronda sangue, grazie alle tante connivenze che gli hanno permesso di continuare i suoi affari indisturbato e sfuggendo alla giustizia.

Il Presidente Mattarella, nel congratularsi con il ministro degli Interni Matteo Piantedosi e il Comandante dell’Arma dei Carabinieri Teo Luzi, ha commentato l’arresto dichiarando che tale atto è stata una vittoria della democrazia e della Repubblica.

La Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, nel congratularsi con i carabinieri per l’arresto ha dichiarato : “ Il governo assicura che la lotta alla criminalità mafiosa proseguirà senza tregua”.

Non possiamo che condividere le parole di quanti si dicono lieti dell’arresto perché, se la giustizia ha, come dice Socrate, una valenza universale propria di quella parte dell’anima dove risiedono la ragione e la saggezza, siamo lieti che, in questa occasione, ragione e saggezza abbiano vinto sulla follia criminale e sulla sua ottusità.

Strage di Capaci trenta anni fa, il coraggio di un uomo e la paura della mafia

Strage di Capaci trenta anni fa, il coraggio di un uomo e la paura della mafia

AttualitàDall'Italia

Trenta anni fa a Capaci, il 23 Maggio 1992, iniziava, da parte del potere mafioso, l’attacco allo Stato con l’attentato e la morte di Giovanni Falcone. Pagina tragica di un potere, quello mafioso, che decise di zittire l’opera di un magistrato che aveva inaugurato un modo nuovo di colpire al cuore le trame della violenza e del malaffare in Sicilia. Egli aveva compreso subito che, per avere successo nelle indagini contro le associazioni mafiose, era necessario risalire ai movimenti bancari e patrimoniali che alimentavano la malavita, in una parola bisognava guardare ai loro soldi.

Giovanni Falcone era un magistrato inquirente/requirente, egli aveva il compito di dirigere le indagini preliminari, cioè raccogliere gli elementi di prova e promuovere l’azione penale pretendendo la punizione dei reati.

Gli anni in cui Falcone giunge a Palermo per la sua funzione, sono gli stessi che avevano visto in Sicilia decenni di fuoco, la mafia siciliana, guidata da Totò Riina, aveva infatti scelto come metodo di difesa dei propri interessi, lo stragismo. Questo era un metodo che si basava sull’eliminazione fisica di quanti ostacolassero scelte e interessi del malaffare e, proprio per questo, l’azione di Falcone e la sua determinazione a demolire l’organizzazione mafiosa, faceva paura.

La paura era enorme, il magistrato, sordo al pericolo e ad un ambiente a lui non sempre amico, doveva essere eliminato. Fu preparato perciò un attentato che mettesse fine al suo lavoro, egli doveva morire e di lui non doveva restare niente e per questo fu preparata, sulla strada che Falcone percorreva solitamente tornando da Roma verso casa, un’esplosione di 1000 kg di tritolo, capace di cancellare un lungo tratto di strada con tutti coloro che vi passavano.

Fu così che il 23 maggio 1992, mentre era insieme alla moglie Francesca Morvillo, anche lei magistrato, alla guida della sua Croma bianca per far ritorno a casa e come faceva abitualmente nei fine settimana,  – l’autista Giuseppe Costanza era seduto dietro e per questo motivo si salverà –  preceduto da una Crome marrone con a bordo gli agenti Vito Schifani, Antonio Milinaro e Rocco Dicillo, morti anche loro nell’attentato e seguita da una Crome azzurra con gli agenti Paolo Capuzzo, Gaspare Cervello e Angelo Corbo che furono feriti, il mafioso Giovanni Brusca, sistematosi sulla collinetta che domina Capaci, premette il pulsante che scatenò l’inferno sotto un tunnel sul quale passano le automobili.

Angelo Corbo, uno dei poliziotti sopravvissuti , ha raccontato che erano diretti a Favignana per vedere la mattanza dei tonni, “ma l’abbiamo vista in anticipo la mattanza. E i tonni eravamo noi”.

Trent’anni fa dunque, quello che Gioacchino La Barbera, uno degli esecutori, chiamerà “l’attentatuni”, metterà fine alla vita di un uomo che aveva dedicato se stesso alla lotta a Cosa Nostra, Falcone era riuscito, con il contributo di decine di collaboratori come Tommaso Buscetta, a ricostruire la struttura verticistica e militaristica della mafia, a individuare mandanti ed esecutori delle stragi palermitane e soprattutto aveva ricostruito le relazioni tra Cosa Nostra  e il potere.

Era riuscito, con gli altri componenti del pool antimafia di Antonino Caponnetto e con Paolo Borsellino, a istruire il maxiprocesso che manderà a giudizio una massa di 474 imputati e che durò dal 10 febbraio 1986 al 30 gennaio 1992, giorno della sentenza della Corte di Cassazione.

La sentenza che aveva colpito così duramente l’organizzazione mafiosa, aprirà però la strada alla stagione stagista ed il primo a cadere sarà l’on. Salvo Lima, uomo di fiducia di Giulio Andreotti in Sicilia.

Bisogna fare la guerra per fare poi la pace”, queste le parole di Totò Riina e così la mafia uccide magistrati, giornalisti, investigatori, il presidente della Regione, Piersanti Mattarella, il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, il segretario regionale del Pci Pio La Torre. Quest’ultimo era promotore di una legge, approvata dopo la sua morte, che prevedeva il reato di associazione mafiosa e introdurrà il sequestro e la confisca dei beni detenuti dagli stessi mafiosi.

Falcone viene anche infangato dalle lettere del “corvo”, un personaggio che lo accusa di aver protetto le vendette di Totuccio Contorno e, nel giugno del 1989, sfugge all’ attentato dell’Addaura, attentato che qualcuno, coloro che avevano definito Falcone ed i suoi collaboratori magistrati : “menti raffinatissime”, volle far passare come un gesto organizzato da Falcone stesso in funzione della sua carriera.

Maldicenze e inimicizia che si manifestarono nel “palazzo dei veleni” a partire dalla realizzazione maxiprocesso. “Ora viene il peggio” affermerà Borsellino ed infatti, fu facile profeta perché 57 giorni dopo la morte di Falcone,  anche Borsellino perderà la vita a Via D’Amelio.

Via D’Amelio

Falcone era dunque un uomo solo, in Sicilia, ma anche in Italia, troppo audace e diverso dal resto della magistratura, pacifica ed abituata alle convenienze ed ai ricatti e, mentre egli era stato prima deriso e poi ucciso, la mafia aveva già preso la strada del Nord Italia per infiltrare le sue maglie malavitose dove c’era danaro e operare in modo sotterraneo e discreto.

Oggi vogliamo ricordare un magistrato, un uomo che affermava :  “L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio ma incoscienza”, un uomo che ha scelto dunque di vivere secondo giustizia e determinazione nei confronti di chi vuole scardinare le regole del vivere civile. 

Basta dunque ipocrisie e commemorazioni sterili, prendiamo semplicemente esempio da chi non ha avuto paura di vivere secondo legge e rispetto della comunità e facciamo che il suo modello di vita diventi ogni giorno, sempre più, anche il nostro.