<strong>Addio a Pelè, simbolo di un popolo in perenne ansia di riscatto</strong>

Addio a Pelè, simbolo di un popolo in perenne ansia di riscatto

Calcio

Pelé, pseudonimo di Edson Arantes do Nascimento, lo sportivo dei record ed il “Re” oltre che mito del calcio, non è riuscito a driblare l’ultimo ostacolo nel campo della vita, è morto all’età di 82 anni presso l’ospedale Albert Einsten di San Paolo in Brasile.

E’ stato senza dubbio il calciatore più famoso al mondo, un uomo venuto da una cittadina poverissima, Bauru, nello Stato di San Paolo, da una famiglia anch’essa povera di una favela che per aiutare, il giovanissimo Edson andava a lavorare nei negozi di tè.

Si appassionò al calcio grazie a suo padre, ex calciatore, ma per allenarsi, non avendo un pallone, utilizzava un calzino riempito di carta o un pompelmo che faceva volteggiare contro un muro.

La sua abilità nell’arte calcistica però fu presto notata quando, dopo aver giocato in squadre di amici della sua stessa strada, giocò contro la giovanile del San Paolo riuscendo, con i suoi gool, a batterla.

Egli odiava il nome Pelè, nomignolo nato da una storpiatura del suo vero nome, infatti amava affermare in merito : “ Il mio vero nome è Edson. Non ho inventato io Pelé. Non volevo quel nome. Pelé ha un suono infantile in portoghese. Edson è più simile a Thomas Edison, l’uomo che ha inventato la lampadina”.

Oggi il calcio è un gioco di duri allenamenti, di tecniche apprese ed utilizzate, un’attività che spesso appare poco come “gioco”, ma per Pelè, uomo di un altro tempo e di altre forme di economia, era il divertimento praticato dai bambini in strada, un mezzo per dimostrare le proprie abilità nelle movenze e nei risultati : vincere contro gli avversari di gioco e contro il proprio destino.

Egli teneva al danaro che guadagnava, ci teneva soprattutto per poter aiutare i propri familiari, i primi guadagni del giovane talento venivano infatti sistematicamente inviati a casa.

Pelè era solo un ragazzo, ma incredibilmente forte nel gioco del calcio, era veloce e manifestava una tecnica innata che spesso i grandi campioni non avevano.  

Quando Waldemar de Brito, ex calciatore famoso in tutto il Brasile, diventa allenatore del Bauru, squadra in cui giocava il giovane Pelè, il ragazzo aveva solo quindici anni, immediatamente si rende conto delle potenzialità del campioncino, lo consiglia e lo aiuta nelle scelte calcistiche che caratterizzeranno il suo futuro; fu grazie ai suoi consigli che Pelè si trasferì al Santos, squadra di San Paolo.

L’allenatore, Luìs Alonso Pérez, sebbene dubbioso sulle reali possibilità del ragazzo, si dovette presto accorgere che aveva qualcosa di speciale e investe sul ragazzo, di appena sedici anni, che promette però di diventare qualcosa di particolare nel gioco del calcio.  

Nel 1958 Edson viene convocato in Nazionale e partecipa ai campionati mondiali in Svezia. Aveva poco più di 17 anni ed è stato il più giovane giocatore a vincere un campionato mondiale infliggendo due micidiali gool agli avversari padroni di casa.

Con quel mondiale vinto Pelè divenne un calciatore desiderato da molte squadre nel mondo, persino l’Inter aveva intavolato trattative per accaparrarselo, ma quando la notizia del possibile addio al Brasile si sparse nel paese, il presidente del Santos fu aggredito dai tifosi ed il governo dovette intervenire per proclamare Pelè  “Tesoro Nazionale”.

Pelè è diventato presto l’uomo dei record, infatti ha vinto tre Coppe del mondo nel 1958, nel 1962 e nel 1970. Divenne presto un’assoluta icona del calcio brasiliano, immagine simbolo di una società che ha sempre visto nel calcio una strada per il riscatto sociale ed economico, un’attività che non è mai stato solo un gioco, ma un vero lavoro con il quale affermare se stessi contro l’indifferenza e il sarcasmo con cui troppo spesso venivano e vengono considerati i giovani e poveri brasiliani.

Pelè è stato dunque un mezzo del riscatto sociale di un popolo che ha fatto del calcio il suo sport nazionale.  

Oggi O Rei, il Re se ne è andato, lui che girava il mondo con tournée organizzate dal Santos per mostrare al mondo il proprio campione giocando delle amichevoli, lui che riusciva a far registrare il tutto esaurito nei vari stadi in cui giocava, un uomo divenuto precursore dell’affare calcio, il primo atleta sponsorizzato dalle multinazionali, l’uomo semplice che ha venduto la sua immagine in cambio di un rasoio e di una merendina.

Bravo e poi immagine di sé e del proprio paese, ha visitato lo Zaire ed il Congo e, in quell’occasione, riuscì a far fermare una guerra tra i due paesi, ha giocato a pallone, dietro pagamento, con quattro presidenti americani : Nixon, Ford, Carter e Reagan, ed è stato anche colui che ha acceso la fiaccola olimpica nelle Olimpiadi di Rio del 2016.

Oggi quel mito e quell’icona ci ha abbandonato, ma noi non potremmo mai dimenticare ciò che egli ha regalato al gioco del calcio e, soprattutto, alla società brasiliana e non solo, il suo sorriso mesto ma deciso ci accompagnerà ancora ed a noi piacerà immaginare i suoi dribbling ed i suoi gesti agonistici anche negli stadi del cielo.